DDL

RELAZIONE
DEL VICEPRESIDENTE FINI
SULLA DROGA

I problemi della legislazione attuale.
L’intervento riformatore, complesso e articolato, che viene proposto con questo ddl, prende le mosse dai problemi derivanti dall’applicazione della legislazione vigente, a seguito delle modifiche apportate al testo unico n. 309/1990 dal referendum del 1993:

Il Dipartimento antidroga.
Comincio proprio da quest’ultimo aspetto, di carattere organizzativo, che viene preso in considerazione soprattutto dai primi articoli del ddl.

Il Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, introdotto circa due anni fa e fino a questo momento retto da un Commissario straordinario, diventa nella nostra proposta l’istituzione ordinaria, incardinata nella Presidenza del Consiglio, che attua per via amministrativa le decisioni del Comitato nazionale di coordinamento per l’azione antidroga, a sua volta composto da tutti i ministri a vario titolo interessati alla materia.

Al Dipartimento vengono trasferiti l’Osservatorio e il Comitato scientifico. Gli articoli 2 e ss. confermano o rimodulano le competenze dei vari ministeri in relazione ai compiti del nuovo Dipartimento.

Le nuove tabelle.
Particolarmente importanti sono i nuovi articoli 13 e 14 del testo unico, che descrivono il nuovo sistema di catalogazione delle tabelle, e snelliscono i meccanismi di completamento e di aggiornamento delle tabelle medesime; in questo modo si evitano i vuoti, determinati da ritardi nell’inserimento, che provocano aree di impunità.

Le tabelle vengono ridotte a due: nella prima sono elencati gli stupefacenti; nella seconda, a sua volta suddivisa in cinque sezioni, sono inclusi i medicinali che contengono sostanze stupefacenti o psicotrope.

La prima tabella elimina ogni fuorviante distinzione fra droghe leggere e droghe pesanti; la “leggerezza” di alcune droghe semplicemente non esiste: lo “spinello” (e in generale i derivati dalla cannabis), che dieci anni fa aveva un principio attivo che non superava l’1.5%, oggi viene reperito anche al 15%, se non oltre, e in questo modo moltiplica i suoi effetti devastanti e progressivamente irreversibili sulla psiche e sul fisico.

Questi danni, con riferimento specifico alla cannabis, sono stati illustrati di recente (26.09.03) da un documento del Consiglio superiore di sanità, che ha parlato di possibile progressione all’uso di altre droghe, di riduzione di capacità cognitive, di memoria e psicomotorie, di schizofrenia, depressione e ansietà.

Gli articoli che seguono descrivono le modalità di autorizzazione alla cessione, alla consegna e all’acquisto dei medicinali contenenti stupefacenti, seguendo criteri di razionalizzazione e di certezza, al fine di prevenire o reprimere abusi.

Le nuove sanzioni penali e amministrative
Il nuovo sistema sanzionatorio, amministrativo e penale, punta a coniugare tre termini, ciascuno dei quali ha una specifica funzione che lo lega agli altri due: prevenzione, repressione e recupero. Il nuovo articolo 72 contiene la chiara affermazione di principio del divieto di uso e di impiego di sostanze stupefacenti.

Lo Stato non resta indifferente rispetto alla diffusione della droga e manifesta il suo giudizio negativo già nei confronti del semplice uso, anche se da questo non derivano direttamente conseguenze penali, come invece impropriamente è stato detto nelle settimane passate.

Le conseguenze sono differenti sulla base della quantità e della qualità delle sostanze stupefacenti, ma anche dalle circostanze soggettive.

Tutto ciò non impedisce di ritenere che drogarsi non è un innocuo esercizio di libertà che non tollera interferenze, ma è un atto di rifiuto dei più elementari doveri del singolo nei confronti delle diverse comunità nelle quali concretamente vive: rispetto a tale atto le istituzioni hanno il dovere di rispondere con un complesso di interventi, il cui presupposto non può non essere una chiara manifestazione di contrarietà.

L’articolo 73 elenca al comma 1 le condotte illecite diverse dalla detenzione, che vengono punite con una pena che, rispetto alla legislazione attuale, mantiene il limite massimo in 20 anni di reclusione, ma che, a seguito della unificazione delle tabelle, riduce il minimo da 8 a 6 anni di reclusione.

Il comma 1 bis reintroduce la punizione della detenzione di droga e fissa la linea di confine fra la detenzione che rappresenta illecito amministrativo e la detenzione che costituisce illecito penale: il confine non è più né la modica quantità, come era per la legge n. 685/1975, e cioè un dato soggettivo riferito alla persona del tossicodipendente, estremamente variabile e quindi arbitrario, né la dose media giornaliera, come era nella versione originaria del testo unico n. 309/1990, comunque riferito al tossicodipendente, sia pure in maniera presuntiva (per ogni sostanza una tabella stabiliva la quantità media che poteva essere consumata in un giorno).

Il confine oggi viene stabilito in modo assolutamente oggettivo da una tabella, che prescinde – lo ripeto – dalle condizioni soggettive, reali o presunte, del tossicodipendente (per questo fissa dei quantitativi abbastanza elevati; es.: 500 mg per la cocaina); in questo modo oltre il limite che la tabella indica per ogni sostanza stupefacente vi è una presunzione di pericolosità anche nella detenzione. Se la droga detenuta oltrepassa quel limite, operano le sanzioni penali; se è al di sotto di quel limite operano le sanzioni amministrative.

Le sanzioni amministrative sono elencate dall’articolo 75: sospensione della patente di guida, del porto d’armi, del passaporto, del permesso di soggiorno per motivi turistici, e fermo amministrativo del ciclomotore in uso. Sono disposte, come già avviene oggi, dal prefetto, che, se ne ricorrono le condizioni, propone un programma di recupero.

In caso di recidiva o in presenza di altri indici di pericolosità, si applicano misure più incisive (articolo 76), come l’obbligo periodico di firma, o il divieto di condurre veicoli a motore, o il divieto di allontanarsi dal comune di residenza; in tal caso, come avviene per misure simili disposte dalla legge sulla violenza sportiva, l’applicazione compete al questore, e la convalida del provvedimento spetta al giudice di pace.

Le sanzioni penali, oltre il limite oggettivo di cui si è detto, seguono criteri di gradualità: resta, per le ipotesi meno gravi, la diminuente del fatto di lieve entità, che prevede una pena da uno a sei anni di reclusione.

Per chi commette un fatto di lieve entità viene introdotta una misura del tutto nuova qualora il soggetto non intenda affrontare un percorso di recupero, e abbia già fruito della sospensione della pena: invece di andare in carcere, se lo richiede, egli può svolgere un lavoro di pubblica utilità per l’intera durata della pena detentiva irrogata; questa possibilità viene revocata se viola gli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro.

L’innovazione punta, attraverso il lavoro, a spingere a quel recupero per il quale il soggetto non si sentiva pronto, evitando contestualmente la reclusione.

Recupero come alternativa al carcere
Confermando disposizioni esistenti, che vengono rese più adeguate alla gravità dei diritti commessi, il recupero viene favorito già dal momento in cui nei confronti del soggetto viene disposta la custodia cautelare in carcere: questa può essere evitata andando agli arresti domiciliari e iniziando, a determinate condizioni, un programma terapeutico.

Più incisive nella direzione del recupero sono le norme, contenute negli articolo dal 90 in poi del testo unico, che consentono, in presenza di un programma, di sospendere l’esecuzione della pena detentiva irrogata in via definitiva; mentre oggi il limite di pena che consente la sospensione è di 4 anni di reclusione, il nuovo limite viene elevato a 6 anni di reclusione.

In questo modo si permette a una fascia più ampia di tossicodipendenti di affrontare con maggiore fiducia il percorso di riabilitazione, e si impediscono vere e proprie storture: come quelle di giovani e di meno giovani che, entrati in comunità mentre i processi erano in corso, hanno completato con successo il programma, talvolta così bene da diventare educatori in comunità, ma nel frattempo sono maturate le condanne che hanno superato, anche di poco, il limite dei 4 anni, determinando il trasferimento di quelle persone in carcere.

Nella stessa prospettiva si colloca una nuova disposizione, che integra il comma 1 dell’art. 671 del codice di procedura penale: più reati possono essere considerati riuniti dal vincolo della continuazione se sono stati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza; questa innovazione, che recepisce una giurisprudenza minoritaria, consente di abbattere ulteriormente il carico di sanzioni penali, partendo dalla considerazione, che motiva la considerazione unitaria dei vari reati, dell’identità di impulso che ha spinto gli illeciti.

Una parte significativa del ddl riguarda l’attività di prevenzione, che vede impegnate più realtà istituzionali, con un ruolo primario del ministero dell’Istruzione, rivolto alle scuole.

Più autonomia e responsabilità per le strutture private.
L’articolo 116, e le norme che a esso seguono, stabiliscono un nuovo sistema di rapporti fra gli enti pubblici e le strutture private che gestiscono attività di recupero. Le novità partono dal presupposto che il programma di riabilitazione di un tossicodipendente ha certamente risvolti di carattere sanitario, ma non coincide per intero con gli interventi sanitari: non è soltanto somministrazione di farmaci o interventi medici, ma è qualcosa di più ampio, complesso e impegnativo, che chiama in causa l’intera dimensione esistenziale; per questo una comunità non può essere considerata alla stregua di una clinica privata, rispetto alla quale far valere gli stessi meccanismi di accreditamento e di convenzionamento.

Si è così prevista l’istituzione di albi regionali, ai quali le strutture private di recupero munite dei requisiti indicati dalla legge si iscrivono: in virtù di tale iscrizione, la cui permanenza dipende ovviamente dal mantenimento dei requisiti, esse sono abilitate a stipulare convenzioni con le regioni, ma anche con il ministero della Giustizia, per la parte relativa al trattamento delle persone cui è stata sospesa l’esecuzione della pena. Una innovazione di grande rilievo è la possibilità, che per la prima volta è riconosciuta alle comunità di certificare la dipendenza da droga e di predisporre il piano terapeutico: ciò permetterà di risolvere i contrasti fra tanti Sert e tante strutture private, derivanti dai ritardi dei primi nel rilascio di tale certificazione, che è pregiudiziale per l’avvio del programma.

Per concludere.
Questo disegno di legge si colloca al di fuori della contrapposizione fra proibizionisti e antiproibizionisti. L’antiproibizionismo aggrava il dramma della droga, favorendone la più ampia diffusione; il proibizionismo in sé non risolve nulla, dal momento che la questione droga non può ridursi a un problema di diritto penale.

Quella che il governo propone è una via diversa, che, senza trascurare il richiamo alla responsabilità, derivante da un chiaro giudizio negativo sulla droga, e anche nel suo semplice uso, investe sulla prevenzione e spinge con tutta la forza possibile verso il recupero.

Ciò nella consapevolezza che la legge dello Stato è un tassello importante, ma non è la bacchetta magica: si inserisce in, e per certi aspetti promuove, una strategia più ampia, che intende coinvolgere le famiglie, il volontariato, le comunità, la scuola, e i tanti giovani e meno giovani che vogliono essere aiutati a uscire da quella dipendenza che stronca una vita dignitosa.